Spero non sia ancora giunta per me l’ora dei consuntivi definitivi ma le cose fatte sino a qui stanno a dimostrare come sia realmente possibile cambiare il nostro modo di essere in questa vita, ribadisco in questa e non in un’altra, alternativa che lascio volentieri nella testa di chi ci crede. Tra i vantaggi di un lavoro decisamente segnato da inconfondibili tratti di matrice operaia non certo da intellettuale e studioso, il più gratificante è di certo quello di essermi conquistato il diritto di stare a questo mondo dell’arte facendo le mie personali scelte, libero e non condizionato da interessi e opportunismi vari: alla fine, oggi ancor più di ieri, debbo rendere conto professionalmente ed umanamente soltanto agli artisti coinvolti nei diversi progetti e a me stesso, privilegio raro di questi tempi. Insomma massima libertà, e anche qualche inevitabile rischio, nella ideazione e realizzazione di progetti che in altre mani sarebbero diversi o semplicemente irrealizzabili.
Questo per dire che anche se il criterio con cui costruisco la programmazione di “Officinaed’Arte” rimane lo stesso, ben distinto e a tal punto caratterizzato da impedire anche il confronto con progetti simili che, da quello che ci risulta, non esistono proprio, il dietro le quinte di ognuna delle quattordici mostre sin qui realizzate è dato da un intenso lavoro che ogni volta deve accantonare buona parte delle certezze acquisite per ridefinire la sua proposta a misura delle diverse personalità coinvolte: e questa di Silvia Piconi è ancor più diversa e caratterizzata anche per quello che ha messo in gioco per il sottoscritto.
Ho conosciuto Silvia appena nel maggio scorso e ci sono voluti giusto quattro secondi per decidere che avremmo costruito assieme questa prima personale nella sua città. A dire il vero ho passato i primi due secondi molto sulla difensiva e, non mi vergogno a dirlo, anche intimorito dalla storia professionale importante che la ragazza ha deciso ad un certo punto di trasferire a mezzo di espressione artistica.
Gli altri due secondi sono invece bastati ad eliminare le preoccupazioni per un “incontro al buio” che avrebbe potuto mettermi in una situazione seria, artisticamente ed anche umanamente difficile da gestire: la ragazza è davvero brava e quello che trasferisce nei suoi lavori, prima ancora di andare a valutare i risultati estetici raggiunti è, per il mix di profondità di pensiero, di conoscenze, di analisi e di personalità, roba rara da trovare in un mondo in cui l’impegno prioritario dei giovani artisti sembra essere quello di rincorrere le mode e sgomitare alla ricerca del consenso di mercato. E il bello è che a tanta materia, corposa e difficile già nelle intenzioni, corrisponde un risultato pittorico invece godibilissimo e messo a disposizione di chiunque: certo, resta importante sapere il meccanismo di costruzione dei suoi lavori, ma, per assurdo, anche un occhio distratto e poco incline agli approfondimenti sarebbe lo stesso appagato dal confronto e spinto alla fine a volerne sapere di più.
2013 è l’anno in cui L’artista ha intrapreso un percorso personale di ricerca e sperimentazione interiore con l’ausilio della pittura, in stato di autoipnosi, tuttora in atto. Il lavoro e la ricerca artistica, avviene ad un livello di attenzione fluttuante indotto dalla tecnica di Autoipnosi, dove si può raggiungere uno stato di profondo rilassamento. Alleggerendo le tensioni mentali, possiamo avvicinarci al proprio caos psico-emotivo interno in maniera più istintuale ed inconsapevole, permettendo alla mente cosciente di avere un dialogo diretto ma profondamente armonioso, con il nostro mentale in ombra “l’inconscio”, che viene estrapolato e proiettato all’esterno in maniera più chiara grazie all’atto del dipingere ed il simbolo\i che ne crea.
A proposito di giovani artisti fa un poco impressione fare i conti con una storia iniziata soltanto 3 anni fa.
Sin dagli esordi del 2013 l’aria che si respira nei lavori pittorici di “Trasparenze” e ne “La Coppia”, sembra già essere il frutto di un percorso lungo e ben più complesso del processo di autoipnosi per il quale passa ogni suo singolo lavoro: la stessa maturità in fatto di scelte che l’ha portata in poco tempo a dare UN corpo ed UNA forma al suo essere artista.
Nel lavoro con le LINEE, il concetto che l’artista vuole comunicare è: “casualità non casualità”, tramite la proiezione di tensioni inconsce interne, all’interno dei confini dello spazio lavoro. Così inizia lo studio delle linee che incrociandosi creano forme e simboli nello “Spazio Quantico” accogliente del tutto. La visualizzazione della casualità non casualità intrecciata, rappresenta il racconto della storia del proprio essere.
Il lavoro con le Linee è tassello importante e dagli sviluppi ancora tutti da scoprire di un lavoro che va diritto per la sua strada fregandosene alla grande del mondo attorno. Silvia nell’elaborazione dei meccanismi emotivi ha già parecchio da fare con se stessa e con lo spazio che andrà ad accogliere il suo intervento artistico: nel suo fare, mentale ed artistico, non c’è spazio alcuno per gli elementi esterni che per tanti altri sono invece sin troppo importanti. I suoi lavori, in primis quelli con e su “le linee”, facilitano il compito a chi, come il sottoscritto, approfitta di ogni occasione utile per ribadire che ad un sistema dell’arte atrofizzato e in corto circuito, si deve e si può rispondere lavorando a progetti personali che debbono in primo luogo rendere conto a se stessi ed alla propria onestà. Conquistata nei fatti e non a parole questa condizione resta poi il problema di mettere in comunicazione e a dialogo il frutto del proprio lavoro con quella che è la condizione storica e culturale di quel preciso momento ed è certo che decidere di affrontare individualmente il confronto con un sistema dato, qualsiasi esso sia, è il modo migliore per dichiarare, prima ancora della battaglia, la propria sconfitta. Alternative ne esistono e sono quelle che portano alla costruzione di quelli che chiamo “spazi liberati” dagli interessi e dalle deviazioni di questo sistema: zone e spazi (mentali, culturali e anche fisici) personali e, necessariamente, collettivi. Non importa il modo e la forma che ognuno decide in piena autonomia e sulla base del proprio pensiero, ma davvero è giunta l’ora di puntare i piedi e di provare a fermare questa corsa a folle velocità verso il ritorno ad un modello di uomo (e di società) che di “sapiens” ha davvero ben poco. Certo se qualcuno mi venisse a dire di cominciare oggi a “lavorare su me stesso” sarebbe come invitarmi a saltare dal ponte più alto del mondo senza avere proprio nessuna speranza di uscirne vivo: già rischio la pelle ogni volta che mi metto sotto la doccia e ad un certo punto mi accorgo di stare trattenendo il respiro da troppo tempo e che, cazzo, ogni tanto debbo pure tornare a respirare. Non so starnutire; non so fischiare; non mi rilasso neanche quando dormo; ho le guance perennemente indolenzite per le arcate dentarie in trazione giorno e notte; non galleggio e se smetto di agitare le braccia vado giù come un pezzo di piombo; non so neanche respirare ma so invece trattenere il respiro per parecchio tempo (?); per non dire poi delle cose che dimentico oppure delle tante che ignoro e preferisco non conoscere di me.
Gli ultimi lavori sono stati una sfida verso le origini.
“Tracce” create da “Linee tremolanti”, uniscono il tutto dando vita al “Simbolo”, voce delle nostre profonde oscurità ancestrali e delle nostre emozioni incistate dalle personali storie vita.
Storie fatte di valori, norme e giudizi, frutto di una rigida e sterile quotidianità, che impedisce di fare il “Vuoto” seme del “Nuovo”, che parla del tutto, che parla delle nostre “Danze Aliene” interiori.
Quasi a dover ricostruire il “punto fermo” di un percorso che in poco tempo ha seminato nello stesso campo così tanti elementi, arrivano ora le “Danze Aliene”. Le linee perdono i confini netti e definiti; sembrano agitarsi e muoversi confuse; lasciano sulla propria strada segni che raccontano di soste utili al confronto e a riordinare le idee; ritornano su se stesse; non tirano più diritte per la loro strada e disegnano un reticolo in cui la meta apparentemente sembra non trovarsi più. La trama martellata della carta offre tutto quello che serve a rappresentare uno spazio mentale non più lindo e lucente ma vissuto di segni, colore e patine. È una danza sofferta e intensa in cui la ricerca del nuovo si confronta a muso duro con i valori e le regole di un quotidiano che sembra proprio non voler abbandonare il campo.
Insomma Silvia volevo dirti che mi sono sempre tenuto ben lontano da quello che invece riempie la tua vita, il tuo lavoro e il tuo fare artistico. Tradotto in arte voglio dire che se il TUO “Autoritratto” del 2015 è un trittico fatto da un pannello bianco a destra, uno nero a sinistra, ed uno centrale attraversato da una ragnatela (casuale ma qui, ancor più che in altri, non casuale) di linee che si incontrano (e si lasciano) e poche zolle di territorio nere di china, che da senso compiuto e significato all’opera, al mio autoritratto sarebbero bastati i soli due pannelli esterni, una perfetta sintesi giocata sul bianco e nero e nulla di più.
A questo punto, sembrerei aver perso il filo del discorso e invece mi ritrovo a dire dei miei limiti per dichiarare la grande ammirazione che ho per te e per chi affronta la vita e l’arte in modi diversi dai miei. Poco prima di chiudere questo testo ho avuto un’altra grande occasione per misurare le motivazioni e le scelte (verrebbe da dire stilistiche ma preferisco chiamarle umane) con cui affronti i tuoi impegni: con l’intervento per la rassegna “Cittadelladell’ARTE” sussurrato e volutamente tenuto nascosto quasi come forma di rispetto per la storia che delle vecchie porte di un palazzo di Avigliano Umbro hanno assorbito dal tempo, mi hai detto che, certo che sì, siamo diversi ma che la diversità, e la capacità di confronto e dialogo tra diversi , sono le più grandi forme di arricchimento culturale ed umano a nostra disposizione.
Guarda caso proprio il contrario di quello che in questi tempi difficili attraversa miseramente il cervello di milioni e milioni di poveri cristi che non trovano meglio da fare che prendersela con quelli più poveri di loro.